A MARSPORT SENZA HILDA

 

 

È raro che i miei racconti contengano dettagli piccanti. Non perché non sia capace di scrivere in maniera un po’ spinta (basti pensare alle mie cinque raccolte originali di limericks non proprio castigate), ma per una scelta precisa. Trovo qualche difficoltà a convincere gli altri di questo fatto, e c’è chi si ostina a credere che io abbia qualche tipo di problema.

Questo racconto nacque da una scommessa editoriale, e dissi al direttore che l’avrei pubblicato sotto pseudonimo per tener fede ai miei principi. Però, quando il racconto fu terminato, mi accorsi che non era poi troppo spinto – era tutto per sottintesi – e siccome non mi andava di negargli la paternità, vi lasciai il mio nome.

 

 

Tanto per cominciare, fu come un sogno. Non dovetti prendere misure di nessun genere. Non dovetti toccare niente. Le cose andarono per conto loro. Forse avrei dovuto sentirlo subito, il puzzo della catastrofe.

Tutto incominciò con la mia solita licenza di un mese tra una missione e l’altra. Un mese di missione e un mese di licenza è la giusta consuetudine del Servizio Galattico. Raggiunsi Marsport per la solita sosta di tre giorni, prima di una breve capatina sulla Terra.

Di solito Hilda  – Dio la benedica, perché è la moglie più adorabile che sia mai toccata ad un uomo – era là ad aspettarmi, e ce la spassavamo moderatamente: un breve, simpatico interludio tutto per noi. L’unico guaio era che Marsport è il posto più ricco di tentazioni del Sistema, e un breve, simpatico interludio non è precisamente la cosa più adatta. Ma come faccio a spiegarlo a Hilda, eh?

Beh, questa volta mia suocera – che Dio la benedica, una volta tanto – si era ammalata proprio due giorni prima che io arrivassi a Marsport. E la sera prima dell’atterraggio, ricevetti uno spaziogramma di Hilda: mi diceva che doveva restare sulla Terra con sua madre, e questa volta non mi sarebbe venuta incontro.

Le spaziografai per dirle che mi dispiaceva moltissimo e che ero molto in ansia per sua madre. E quando sbarcai, le cose stavano proprio così:

Ero a Marsport senza Hilda!

E questo era ancora niente, capite? Questa era soltanto la cornice del quadro, lo scheletro della donna. Adesso c’era il problema delle linee e dei colori del quadro, la pelle e la carne attorno alle ossa.

Perciò chiamai Flora  – Flora di certi rari episodi del passato – da una cabina videofonica. Crepi l’avarizia, e avanti a tutta forza.

Stavo scommettendo con me stesso, dieci a uno, che lei era fuori, che era occupata e aveva staccato il videofono, persino che era morta.

Ma era in casa, con il videofono attaccato, ed era tutt’altro che morta.

Era più bella che mai. L’età non può avvizzire né la consuetudine può sbiadire, come ha detto qualcuno, la sua infinita varietà. E la vestaglia che aveva addosso – o meglio, che non aveva quasi indosso – contribuiva parecchio ad abbellirla.

Era contenta di vedermi. Squittì:  – Max! Sono anni che non ci vediamo!

– Lo so, Flora, ma sono qui, se tu sei libera. Indovina un po’ ! Sono a Marsport senza Hilda.

Lei squittì di nuovo.

– Ma che carino! Vieni subito da me.

Spalancai gli occhi. Questo era troppo.

– Vuoi dire che sei libera?  – Dovete capire che Flora non era mai libera senza un adeguato preavviso. Be’, era molto ricercata.

– Oh, ho da sistemare una cosetta da niente, Max – disse lei.  – Ma me la sbrigo io. Vieni subito.

– Vengo – dissi allegramente.

Flora era quel tipo di ragazza… Beh, vi dirò, teneva il suo appartamento a gravità marziana, 0,4 g rispetto alla normale gravità terrestre. L’impianto che liberava l’appartamento dal campo di pseudogravità di Marsport costava un sacco, naturalmente, ma vi dirò tra parentesi che ne valeva la pena, e lei non faticava certo a pagarlo. Se avete tenuto tra le braccia una ragazza a 0,4 g, non avete bisogno di spiegazioni. Se non l’avete mai tenuta, le spiegazioni non servono. E mi dispiace per voi.

È come galleggiare sulle nuvole…

E badate bene, la ragazza deve sapere come regolarsi, a bassa gravità. Flora lo sapeva. Non parlo di me, mi capite, ma Flora non mi aveva invitato subito a precipitarmi da lei e non aveva disdetto gli impegni precedenti soltanto perché non sapeva cosa fare. Lei sa sempre cosa fare.

Tolsi la comunicazione, e la sola prospettiva di rivederla presto in carne e ossa – e che carne! – aveva potuto indurmi a cancellare quell’immagine con tanta alacrità. Uscii dalla cabina.

E in quel momento, in quel preciso momento, in quell’esatto istante, il primo prodromo della catastrofe m’investì.

Quel prodromo era la testa pelata di quell’odioso Rog Crinton, della Sezione Marziana, che luccicava al di sopra d’una faccia dagli occhi celeste pallido, dalla carnagione giallo pallido e dai baffi castano pallido. Era proprio quel Rog Crinton, con una parziale ascendenza slava, che secondo una buona metà degli agenti in servizio aveva un secondo nome che suonava più o meno Fioldunkàn.

Non mi lasciai cadere per terra e non incominciai a battere la testa sul pavimento solamente perché la mia licenza era incominciata nel momento preciso in cui ero sceso dall’astronave.

Mi rivolsi a lui con l’abituale gentilezza.

– Cosa diavolo vuoi e ho fretta. Ho un appuntamento.

– Hai un appuntamento con me – disse lui.  – Ho un lavoretto da affidarti.

Risi e gli spiegai, con tutti i dettagli anatomici indispensabili, dove poteva mettersi quel lavoretto, e mi offrii di procurargli un martello per facilitare la cosa.

– È il mio mese di licenza, amico.

– È un’emergenza. Allarme rosso, amico.

Il che significava niente licenza: proprio così. Non potevo crederci.

– Sciocchezze, Rog – dissi.  – Abbi un po’ di cuore. Ho anch’io un mio allarme d’emergenza.

– Niente da fare.

– Rog – lo supplicai, – non puoi pescare qualcun altro? Chiunque altro?

– L’unico agente di Classe A su Marte sei tu.

– Mandane a prendere uno sulla Terra, allora. Al Quartier Generale hanno mucchi di agenti.

– È un lavoro che va sbrigato prima delle undici di stasera. Cosa ti succede? Non hai tre ore di tempo?

Mi strinsi la testa fra le mani. Lui non sapeva.

– Lasciami fare una videofonata, ti spiace? – gli dissi.

Rientrai nella cabina, lo guardai brutto e dissi:  – Personale!

Flora tornò a risplendere sullo schermo, come un miraggio su un asteroide.

– È successo qualcosa, Max? – mi disse.  – Non dirmi che è successo qualcosa. Ho disdetto l’altro appuntamento.

– Flora, pupa – dissi io, – verrò da te. Ci verrò. Ma è successo qualcosa.

Lei fece la domanda ovvia, con un tono di voce offeso, e io dissi:  – No. Non c’è di mezzo un’altra ragazza. Quando in una città ci sei tu, non ci sono altre ragazze. Forse delle femmine. Non delle ragazze. Pupa! Tesoro! È un lavoro. Aspettami. Non ci vorrà molto.

Lei disse:  – Va bene.  – Ma lo disse in modo da farmi capire che non andava bene per niente, e a me vennero i brividi.

Uscii dalla cabina e dissi:  – D’accordo, Rog Fioldunkàn, in che specie di guaio hai intenzione di cacciarmi?

 

 

Andammo al bar dello spazioporto ed entrammo in un separé isolato.

Rog disse:  – Esattamente tra mezz’ora, alle otto pomeridiane, ora locale, arriverà da Sirio l’Antares Giant.

– Capito.

– Tra gli altri passeggeri scenderanno tre uomini, che aspetteranno che la Space Eater arrivi dalla Terra alle undici della sera, per ripartire poco dopo per Capella. I tre uomini saliranno sulla Space Eater, e allora saranno fuori della nostra giurisdizione.

– E allora?

– E allora tra le otto e le undici, staranno in una sala d’aspetto speciale e tu starai con loro. Ho un’immagine tridimensionale di ognuno di loro, quindi saprai riconoscerli. Tu avrai tre ore, dalle otto alle undici, per stabilire quale dei tre porta merce di contrabbando.

– Che genere di merce?

– Il genere peggiore. Spaziolina alterata.

– Spaziolina alterata?

Mi aveva colto di sorpresa. Sapevo cos’era la Spaziolina. Se avete fatto un viaggio spaziale lo sapete anche voi. E anche se non lo avete mai fatto, sapete certamente che tutti ne hanno bisogno al primo viaggio; quasi tutti ne hanno bisogno per la prima dozzina di viaggi; e molti ne hanno bisogno per tutti i viaggi. Senza la Spaziolina, c’è la vertigine associata con l’imponderabilità, crisi di terrore, psicosi semipermanenti. Con la Spaziolina, non succede niente di niente. E non dà assuefazione: non ha effetti secondari nocivi. La Spaziolina è ideale, essenziale, insostituibile. Se avete dubbi, prendete la Spaziolina.

– Esattamente, Spaziolina alterata – disse Rog.  – Può essere trasformata chimicamente, per mezzo d’una reazione semplicissima che chiunque può realizzare in cantina: diventa una droga che ti dà una carica colossale e che crea l’assuefazione fin dalla prima volta. È sullo stesso piano dei peggiori alcaloidi che conosciamo.

– E lo abbiamo appena scoperto?

– No. Il Servizio lo sa da anni, e abbiamo impedito che venissero a saperlo gli altri. Ma adesso, la scoperta è andata troppo in là.

– In che senso?

– Uno degli uomini che farà sosta in questo spazioporto ha indosso un certo quantitativo di Spaziolina alterata. I chimici del sistema di Capella, che non fa parte della Federazione, l’analizzeranno, e così riusciranno a sintetizzarne dell’altra. Qui si tratta di batterci contro la peggior minaccia che ci sia mai capitata, o di eliminare la faccenda eliminando la fonte.

– Vuoi dire la Spaziolina?

– Esatto. E se eliminiamo la Spaziolina, eliminiamo anche i viaggi spaziali.

Decisi di mettere il dito sulla piaga.

– E quale dei tre uomini la porta?

Rog ebbe un sorriso maligno.

– Se lo sapessimo, avremmo bisogno di te? Tocca a te scoprire chi è.

– Mi stai affibbiando l’incarico di perquisirli?

– Toccando l’uomo sbagliato c’è da rimetterci anche la pelle. Tutti e tre sono pezzi grossi, sui rispettivi pianeti. Uno è Edward Harponaster; uno è Joaquin Lipsky; e uno è «Andiamo» Ferrucci. Ebbene?

Non si sbagliava. Avevo sentito parlare di tutti e tre. È probabile che ne abbiate sentito parlare anche voi. Erano dei VIP, molto VIP, e non si potevano toccare senza fior di prove.

– Possibile che uno di loro sia immischiato in una faccenda così sporca? – chiesi.

– È un giro di milioni di miliardi – disse Rog.  – Il che significa che chiunque di loro tre può esserci dentro. E uno di loro c’è dentro, perché Jack Hawk questo è riuscito a stabilirlo, prima che lo uccidessero…

– Jack Hawk è morto?

– Sicuro, ed è stato uno di quei tre a farlo eliminare. Ora tu devi scoprire chi è stato. Punta il dito sull’individuo giusto prima delle undici, e ci sarà una promozione, un aumento di stipendio, la vendetta per il povero Jack Hawk e la salvezza per la Galassia. Punta il dito sull’individuo sbagliato, e ci sarà un brutto incidente interstellare e tu verrai buttato fuori e finirai su tutte le liste nere da qui ad Antares e ritorno.

– E se non puntassi il dito su nessuno? – dissi.

– Per quel che riguarda il Servizio, sarebbe come puntarlo sull’uomo sbagliato.

– Devo puntare il dito su qualcuno, ma solo sull’individuo giusto, altrimenti sono nei guai?

– Sicuro. Vedo che cominci a capirmi, Max.

Benché fosse sempre stato brutto, Rog Crinton non mi era mai sembrato così brutto. L’unica consolazione che potevo ricavare, guardandolo, era il pensiero che anche lui era sposato, e che viveva a Marsport con sua moglie trecentosessantacinque giorni all’anno. E se lo merita! Forse sarò duro con lui, ma se lo merita davvero.

Non appena Rog fu fuori vista, mi affrettai a chiamare Flora.

– Be’? – disse lei. Le chiusure magnetiche della sua vestaglia erano aperte ai punti giusti e la sua voce era dolce ed eccitante quanto il suo aspetto.

– Pupa, tesoro – dissi io, – non posso parlartene, ma devo fare una cosa, capisci? Adesso aspettami: la finirò anche se dovessi percorrere a nuoto tutto il Grande Canale in mutande, fino alla calotta polare, capisci? Anche se dovessi strappare Phobos dal cielo. A costo di farmi fare a pezzi e di farmi spedire per pacco postale.

– Caspita – disse lei, – se avessi saputo che dovevo aspettare…

Rabbrividii. Non era un tipo molto sensibile alla poesia. Era una creatura d’azione… Ma dopotutto, se dovevo galleggiare nella bassa gravità, in un mare di profumo di gelsomino insieme a Flora, la sensibilità alla poesia non era precisamente il tipo di qualità che avrei giudicato più indispensabile.

Dissi, in fretta:  – Aspettami, Flora. Sarò subito da te. E mi farò perdonare.

Ero irritato, sicuro, ma non ero ancora preoccupato. Rog non mi aveva ancora lasciato solo che già avevo stabilito esattamente il modo in cui avrei potuto distinguere il colpevole dagli altri.

Era facile. Avrei dovuto richiamare Rog e dirglielo, ma nessuna legge impedisce di volere l’uovo nella birra e l’ossigeno nell’aria. Mi sarei sbrigato in cinque minuti e poi mi sarei precipitato da Flora; forse un po’ in ritardo, ma con una promozione, un aumento di stipendio, e un bacetto del Servizio sull’una e sull’altra guancia.

Vedete, le cose stanno così. I grandi industriali non vanno spesso in giro nello spazio: si servono del transvideo. Quando si recano a qualche importantissima conferenza interstellare, come stavano facendo probabilmente quei tre, prendono la Spaziolina. Tanto per cominciare, non hanno all’attivo abbastanza voli spaziali per correre il rischio di farne a meno. In secondo luogo, la Spaziolina costa cara, e gli industriali amano le cose che costano care. Conosco bene la loro mentalità.

Ma questo sarebbe stato valido per due di loro. Quello che portava la merce di contrabbando, invece, non poteva correre il rischio di prendere la Spaziolina… a costo di farsi venire il mal di spazio. Sotto l’effetto della Spaziolina, avrebbe potuto gettare via la droga, o regalarla, o parlarne a vanvera. Quindi doveva assolutamente conservare il suo autocontrollo.

Era molto semplice.

L’Antares Giant arrivò in orario. Per primo, portarono dentro Lipsky. Aveva le labbra piene e rubizze, guance cascanti, sopracciglia nerissime, e capelli che incominciavano appena a ingrigire. Si limitò a guardarmi e sedette. Niente. Era sotto l’effetto della Spaziolina.

Io dissi:  – Buonasera, signore.

E lui, con voce sognante:  – Realismo di smorfie di fiele legati timidamente tendono nodi digiuni.

Era proprio l’effetto della Spaziolina. Tutti i pulsanti della mente umana si mettevano a funzionare liberamente, e ogni sillaba suggeriva quella successiva in una libera associazione.

Poi arrivò Andiamo Ferrucci. Baffi neri, lunghi e impomatati, carnagione olivastra, faccia butterata. Sedette.

– Ha fatto buon viaggio?

– Giovane negativo volenteroso sognava vaghi ghiri rincorrendo dodici.

Lipsky disse:

– Dicitura rapida dava valore resistente tempra pratica cavallina naturale.

Sogghignai. Restava Harponaster. Avevo già la pistola ad ago in pugno, ben nascosta, e la carica magnetica già-pronta per catturarlo.

Poi arrivò Harponaster. Era magro, coriaceo e, benché fosse quasi calvo, era molto più giovane di quanto apparisse nell’immagine tridimensionale. Ed era pieno di Spaziolina fino agli orecchi.

– Accidenti! – esclamai.

E Harponaster:  – Dentista stabile leva la valigia giamaicana nacchere restanti tintinnano.

Ferrucci disse:  – Nano nove vetri tristissimi mistificando novelli libri bricconi.

Lipsky disse:  – Coniglietti tirannici cinguettavano.

Li guardai intento, uno dopo l’altro, mentre quei discorsi sconclusionati diventavano sempre più brevi e finivano per interrompersi.

Bene, adesso avevo capito. Uno dei tre stava fingendo. Aveva previsto tutto e si era reso conto che non prendere la Spaziolina significava correre il rischio di tradirsi. Forse aveva corrotto un funzionario perché gli iniettasse una semplice soluzione salina, oppure era riuscito a schivarla in qualche altro modo.

Uno di loro fingeva. Non era molto difficile. Gli attori della subeterovisione facevano regolarmente qualche scenetta sulla Spaziolina. Era sbalorditivo vedere le libertà che potevano prendersi, in quel modo, nei confronti della morale. Del resto, voi li avete sentiti.

Li guardai, e sentii il primo brivido corrermi su per la schiena, e quel brivido diceva:  – E se non punti il dito su quello giusto?

Erano le otto e trenta e c’erano in gioco il mio posto, la mia reputazione, e la mia testa che cominciava a vacillarmi sul collo. Rimandai quei pensieri a più tardi e pensai invece a Flora. Non mi avrebbe aspettato in eterno. Anzi, era molto probabile che non mi aspettasse neppure mezz’ora.

Riflettei. Chissà se l’impostore avrebbe saputo continuare a fingere la libera associazione, se lo avessi sospinto delicatamente su un terreno pericoloso?

Dissi:  – Questo tappeto ha dei disegni stupefacenti.  – E accentuai quell’ultima parola.

Lipsky:  – Stupefacenti centellinati timorosamente tengono nobili libri.

Ferrucci:  – Brividi dirompendo pendoli liquidazione onestamente temono.

Harponaster disse:  – Monoliti tirchi chiariranno annoverando domini minigolf olfatto attori.

Lipsky disse:  – Ricordi e dischi.

Ferrucci disse:  – Schiavismo.

Harponaster disse:  – Smodatamente.

Qualche grugnito ancora, poi tacquero.

Ritentati, senza dimenticare la prudenza. Avrebbero ricordato tutto quello che dicevo, e quello che dicevo doveva essere assolutamente innocuo. Dissi:  – Questa è un’ottima spaziolinea.

Ferrucci disse:  – Allineata con tavoli liberiani anima da salvare recitando dove veste la stella marina.

Lo interruppi, guardando Harponaster:  – Un’ottima spaziolinea.

– Linea e punto topi e tope pecora nera ragliante antelucana canadese.

Interruppi anche lui, guardando male Lipsky.  – Ottima spaziolinea.

– Lineare recitati tigri grigie gemono monocolore loricato.

Qualcun altro disse:  – Torpedoni e treni renitenti tentando dolorosamente.

– Mentecatti e gatti soriani.

– Anitra all’arancio.

– Arancione e giallo.

– Allodola.

– Labile.

Riprovai diverse altre volte, e non ne ricavai niente. L’impostore, chiunque fosse, si era allenato a dovere, oppure aveva una predisposizione innata alla libera associazione. Aveva, per così dire, mollato i freni del suo cervello e lasciava che le parole gli uscissero di bocca a ruota libera. Inoltre, doveva ispirarlo il fatto che aveva capito benissimo dove volevo andare a parare. Se la parola «stupefacenti» non lo aveva chiarito, «spaziolinea», ripetuta ben tre volte, glielo aveva fatto capire. Con gli altri due io ero a posto, ma lui sapeva la verità.

E si divertiva alle mie spalle. Tutti e tre avevano detto frasi che potevano indicare un profondo senso di colpa: «anima da salvare», «stupefacenti centellinati» e «pecora nera», e così via. Due stavano dicendo quelle cose spontaneamente, a casaccio. Il terzo si stava divertendo.

E allora, come facevo a scoprire chi era? Ero scosso da un fremito d’odio nei suoi confronti, e le mie dita si contraevano. Quel porco stava per sovvertire l’ordine costituito della Galassia. E cosa ancora più grave, mi impediva di andare da Flora.

Avrei potuto avvicinarmi ai tre e cominciare a perquisirli. I due che erano veramente sotto l’effetto della Spaziolina non avrebbero alzato un dito per impedirlo. Non potevano provare emozioni, né paura, né ansia, né odio, né passione, né istinto di conservazione. E se uno di loro avesse tentato il minimo gesto di resistenza, avrei capito di trovarmi di fronte al colpevole.

Ma, dopo, gli innocenti avrebbero ricordato tutto.

Sospirai. Se mi fossi azzardato a farlo, avrei pescato il colpevole, sicuro, ma poi sarei stato nelle peste più di qualunque altro essere umano della storia. Ci sarebbe stata una mezza rivoluzione nel Servizio, uno scandalo che sarebbe dilagato in tutta la Galassia, e in tutto quel caos e in quella disorganizzazione, il segreto della Spaziolina alterata si sarebbe sparso, alla faccia di tutte le precauzioni. E allora…

Certo, il colpevole poteva anche essere il primo sul quale avrei messo le mani. Una possibilità su tre. Un po’ poco.

Accidenti, qualcosa li aveva rimessi in moto mentre io stavo borbottando fra me e me, e la Spaziolina scioglie maledettamente la lingua, oh…

Fissai disperato il mio orologio, e il mio sguardo s’inchiodò sulle nove e un quarto.

Ma dove diavolo fuggiva il tempo?

Oh, accidenti! Oh, povero me! Oh, Flora!

Non avevo scelta. Mi diressi verso la cabina per un’altra, frettolosa videofonata a Flora. Molto frettolosa, capite, tanto per tener viva la faccenda, ammesso che non fosse già morta e sepolta.

Non mi risponderà, continuavo a dire a me stesso.

Cercai di prepararmi a quell’eventualità. C’erano altre ragazze, c’erano altre…

No, non c’erano altre ragazze.

Se Hilda fosse stata a Marsport non avrei mai avuto in mente Flora, tanto per cominciare, e non me ne sarebbe importato. Ma ero a Marsport senza Hilda e avevo preso un appuntamento con Flora: con Flora e con un corpo che era stato fabbricato mettendo insieme manciate di tutto ciò che vi era di morbido e di sodo e di fragrante; Flora e una stanza a bassa gravità e quel suo modo di fare che lo faceva sembrare come una interminabile caduta libera in un caldo, respirabile oceano di meringa profumata di champagne…

Il campanello squillava e squillava e io non osavo riattaccare.

Rispondi! Rispondi!

Rispose.  – Sei tu!  – disse.

– Certo, amore, chi altri doveva essere?

– Un sacco di gente. Qualcuno che potrebbe venire qui.

– È solo un piccolo impegno di lavoro, bambola.

– Che lavoro? Chi è che gli vendi il plaston?

Stavo quasi per correggere il suo errore di grammatica, ma mi chiesi da dove saltava fuori quella storia del plaston.

Poi mi ricordai. Una volta le avevo detto di essere un rappresentante di plaston. Era stata la volta che le avevo portato una camicia da notte in plaston che era una delizia. Mi bastò pensarci per sentire una fitta dove non avevo nessun bisogno di sentire altre fitte.

– Ascolta – dissi.  – Dammi solo un’altra mezz’ora…

Le si inumidirono gli occhi.

– E io sono qui tutta sola…

– Mi farò perdonare.  – Per dimostrarvi fino a che punto ero disperato, stavo incominciando a pensare secondo una concatenazione di idee che poteva portare soltanto in una gioielleria, anche se un buco troppo grosso nel conto in banca sarebbe spiccato, agli occhi penetranti di Hilda, come la Nebulosa Testa di Cavallo che interrompe la Via Lattea come un’immensa macchia nera.

Flora disse:  – Avevo un appuntamento interessantissimo e l’ho disdetto.

– Mi hai detto che era una cosetta da niente da sistemare – protestai.

Fu un errore. Lo capii nello stesso momento in cui pronunciai quelle parole.

– Una cosetta da niente! – strillò lei. Aveva detto proprio così. Ma avere la verità dalla tua parte non migliora molto la situazione, quando discuti con una donna. E lo sapevo benissimo.  – Stai parlando di un uomo che mi ha promesso una villa sulla Terra…

Continuò per un pezzo a parlarmi di quella villa sulla Terra. Non c’era ragazza a Marsport che non sognasse una villa sulla Terra, e il numero di quelle che erano riuscite ad averla lo potevi contare sul sesto dito della mano. Ma la speranza fiorisce eterna nei petti umani, e Flora aveva spazio in abbondanza per farla fiorire.

Cercai di interromperla. La tempestai di «pupa» e di «tesoro» a tutta forza.

Non servì a niente.

Finalmente lei disse:  – E adesso sono qui sola, senza nessuno, e non ti rendi conto che questo rovinerà la mia reputazione?  – E tolse la comunicazione.

Be’, aveva ragione lei. Mi sentivo il peggior mascalzone della Galassia. Se si fosse risaputo che era stata piantata in asso, si sarebbe anche sparsa la voce che era piantabile, che stava perdendo il suo fascino. Una cosa del genere poteva rovinarla.

Ritornai nella saletta d’aspetto. Un poliziotto di guardia mi salutò e mi fece entrare.

Guardai i tre industriali e mi chiesi in che ordine li avrei strangolati lentamente se avessi potuto farmi dare l’ordine di strangolarli. Prima Harponaster, forse. Aveva un collo sottile che potevo stringere alla perfezione con le dita, e un pomo d’Adamo sporgente su cui i pollici avrebbero trovato un eccellente appiglio.

Quel pensiero mi consolò un poco, al punto che mormorai:  – Perdiana!

La reazione a catena ricominciò. Ferrucci disse:  – Anatre sull’acqua quaresima mangiando di magro…

Harponaster dal collo sottile aggiunse:  – Grotte e caverne verniciano cianografie fievoli volanti.

Lipsky disse:

– Antichi chiodi dimenticati tirano ranocchie nello stagno.

– Stagno e piombo bollenti lenticchie e ceci.

– Cinema e teatro.

– Trotterellando andavano.

– Avannotti.

– Ottimista.

– Stalla.

– Là.

Poi, più niente.

Mi fissavano. Li fissai. Erano privi di emozioni… almeno, -due di loro lo erano; e io non avevo idee. E il tempo passava.

Continuai a fissarli e pensai a Flora. Mi venne in mente che non avevo niente da perdere più di quanto avessi già perduto. Tanto valeva che parlassi di lei.

– Signori – dissi, – in questa città c’è una ragazza della quale non farò il nome per non comprometterla. Mi permettano di descriverla, signori.

E la descrissi. Vi assicuro che le ultime due ore mi avevano ridotto al punto che la descrizione assunse una carica di poesia scaturita dalla sorgente stessa dell’energia maschile, nel sotterraneo più profondo del mio inconscio.

E quei tre stavano seduti immobili, come se mi stessero ascoltando; non mi interruppero quasi mai. Le persone sotto l’effetto della Spaziolina osservavano una specie di galateo. Non parlano quando sta parlando qualcun altro. È per questo che fanno a turno.

Di tanto in tanto, naturalmente, dovevo fare qualche pausa perché lo stesso tenore dell’argomento m’induceva ad esitare; e allora qualcuno di loro s’intrometteva pronunciando qualche parola, prima che io riuscissi a riprendermi e a proseguire.

– Rosa e champagne rosé e semi di girasole levantini.

– Tini e botti tinteggiati tirano il birroccio con l’assale.

– Assale e pepe pedonale.

Alzai la voce e continuai a parlare.

– Questa ragazza, signori – dissi, – ha un appartamento a bassa gravità. Ora loro potranno chiedere: a che serve la bassa gravità? Bene, io intendo spiegarlo, signori, perché se non hanno mai avuto l’occasione di trascorrere una tranquilla serata intima con una primadonna di Marsport, non possono immaginare…

Ma cercai di fare in modo che non fossero costretti ad immaginare niente. Descrissi tutto con tanto scrupolo che per loro era come essere presenti. Dopo avrebbero ricordato tutto, ma ero convinto che i due innocenti non avrebbero avuto crisi di indignazione retroattiva. Era molto più probabile che mi cercassero per chiedermi il numero videofonico di Flora.

Continuai, senza omettere nessun particolare, con una specie di profonda tristezza nella voce, fino a quando l’altoparlante annunciò l’arrivo della Space Eater.

Era fatta. Dissi a voce alta:  – In piedi, signori.

Si alzarono all’unisono, si girarono verso la porta, si avviarono, e quando Ferrucci mi passò davanti, gli battei la mano sulla spalla e dissi:  – Tu no, sporco assassino.  – E la mia spirale magnetica gli strinse il polso prima che avesse tempo di respirare due volte di fila.

 

Ferrucci si difese come un demonio. Lui non era sotto l’effetto della Spaziolina. Trovarono la Spaziolina alterata in sottili sacche di plastica color carne fissate alla superficie interna delle cosce, e rivestite di peli in modo da risultare invisibili. Non si vedevano: si sentivano soltanto, e comunque dovettero adoperare un coltello per assicurarsene.

Poi Rog Crinton, sogghignante e quasi fuori di sé per il sollievo, mi afferrò per il bavero in una stretta minacciosa.

– Come hai fatto a riuscirci? Che cosa lo ha tradito?

Cercai di svincolarmi.

– Uno di loro – dissi, – stava simulando gli effetti della Spaziolina. Di questo ero sicuro. Così ho raccontato loro…  – Diventai prudente, di colpo. I particolari non erano affar suo.  – Uhm… storielle piccanti; due non hanno mai reagito, quindi erano imbottiti di Spaziolina. Ma il respiro di Ferrucci era diventato più rapido, e il sudore gli era spuntato sulla fronte. Ho fatto un racconto molto realistico, e lui ha reagito, quindi non aveva preso la Spaziolina. E quando si sono alzati in piedi per uscire, ormai ero sicuro e l’ho fermato. E adesso, vuoi lasciarmi andare?

Mi lasciò andare e poco mancò che io cadessi riverso.

Ero pronto a decollare. I miei piedi battevano il pavimento senza bisogno di istruzioni da parte mia, ma mi voltai.

– Ehi, Rog – dissi.  – Puoi firmare un assegno di mille crediti senza farli figurare nei registri… per lavori resi al Servizio?

Fu allora che mi resi conto fino a che punto era fuori di sé per il sollievo e per una gratitudine molto temporanea, perché rispose:  – Sicuro, Max, sicuro. Anche diecimila crediti, se li vuoi.

– Li voglio – dissi io.  – Li voglio, li voglio.

Riempì un assegno ufficiale del Servizio per diecimila crediti, che in mezza Galassia valevano come denaro in contanti. Stava addirittura sorridendo, quando me lo consegnò, e potete star certi che stavo sorridendo anch’io, quando lo presi.

Era affar suo come intendesse giustificare quell’uscita. L’importante era che non figurasse come entrata agli occhi di Hilda.

 

Ero nella cabina, un’ultima volta, e chiamavo Flora. Non osavo lasciare le cose in sospeso fino al momento di arrivare a casa sua. Quella mezz’ora in più poteva darle il tempo di trovare qualcun altro, se non lo aveva già trovato.

Rispondi. Rispondi. Rispondi…

Rispose, ma era vestita di tutto punto. Stava per uscire, ed era chiaro che l’avevo chiamata appena in tempo.

– Sto uscendo – mi annunciò.  – Esistono anche uomini per bene. E non voglio vederti mai più. Non voglio mai più doverti mettere gli occhi addosso. Mi farai un grosso favore, signor Chiunquetusia, se dimenticherai il mio numero e non lo contaminerai più con…

Io non dicevo niente: stavo semplicemente lì, trattenendo il respiro, e reggendo l’assegno in modo che lei potesse vederlo. Stavo lì e basta.

Quando disse contaminerai si avvicinò per guardare meglio. Non era molto istruita, quella ragazza, ma sapeva leggere diecimila crediti più in fretta di qualunque laureato del Sistema Solare.

– Max! – esclamò.  – Per me?

– Tutto per te, bambola, – dissi io.  – Te l’avevo detto che avevo un lavoretto da sbrigare. Volevo farti una sorpresa.

– Oh, Max, che gentile. Non me l’ero mica presa, sai? Stavo solo scherzando. E adesso corri subito qui da me.  – Si tolse la giacca, e compiuto da Flora quello era un gesto molto interessante da osservare.

– E il tuo appuntamento? – chiesi.

– Te l’ho detto, stavo scherzando – disse lei. Lasciò cadere dolcemente la giacca sul pavimento, e giocherellò con una spilla che aveva l’aria di tenere insieme il vestito.

– Arrivo subito – dissi con un filo di voce.

– Con tutti quei crediti – fece lei, maliziosamente.

– Con tutti quanti – dissi io.

Tolsi la comunicazione, uscii dalla cabina: e adesso, finalmente, ero a posto, davvero a posto.

Mi sentii chiamare per nome.

– Max! Max!  – Qualcuno stava correndo verso di me.  – Rog Crinton mi ha detto che ti avrei trovato qui. Mamma sta molto meglio, così ho ottenuto un passaggio spaziale sulla Space Eater… e cos’è quella faccenda dei diecimila crediti?

Non mi voltai. Dissi:  – Ciao Hilda.

Restai saldo come una roccia.

Poi mi voltai, e feci la cosa più difficile che fossi mai riuscito a fare in tutta la mia sciagurata, inutile, vagabonda esistenza.

Sorrisi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Titolo originale:

I’M IN MARSPORT WITHOUT HILDA

Le Migliori Opere Di Fantascienza
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